Gran porcellum
Tuesday, 15th October 2013 

Gran porcellum

Carlo Di Stanislao dall'Aquila -

I partiti si azzuffano sulle regole del gioco fra chi vuole conservare il “Porcellum” e chi lo vuole cambiare non si sa bene come. Berlusconi sbatte i pugni e dice che gli è richiesto di tornare poiché il Paese è a un passo dal baratro, mentre Passera, ieri su La Stampa e oggi ad Agorà, dice che questo non sarebbe un bene per il Paese.
 
Intanto il ministro Patroni Griffi ribadisce che non potranno essere regolarizzati i 260.000 precari italiani, lasciando nel panico quegli ospedali che sul precariato ormai da anni si reggono e frustrando le aspettative di quegli insegnanti che pensavano che un governo di tecnici avrebbe puntato sull’istruzione e la scuola. Dal canto suo il presidente del Consiglio Mario Monti, pur lodando  il sistema sanitario pubblico, torna a sottolineare che “è chiamato a ripensarsi”, necessitando di innovazione, anche se Napolitano lancia un monito a tutela della salute aperta a tutti i cittadini  e non solo a quelli più abbienti.

Insomma, anche se lo spread scende come anche le finanze e le riserve degli italiani chiamati a pagare una quota Imu pari a ben 14 miliardi, con figli disoccupati o precari e loro stessi con pensione sempre più distante e davvero nessun incentivo, l’Italia è in un gran pasticcio. Dopo l’esito delle primarie e la netta vittoria di Bersani, il Monti bis, dato quasi per scontato anche da ambienti parlamentari del Pd, adesso vive una battuta d'arresto, non solo a causa del pericolo persistenza “Porcellum” (con Calderoli che ghigna "E il maiale visse felice e contento...”), ma anche un certo sfaldamento della galassia centrista montiana, con  il movimento di Luca di Montezemolo che rischia di perdere pezzi, con l'area delle Acli che ha già fatto capire di guardare al Pd e voci circolanti, in modo insistito, di un 'riavvicinamento' di Corrado Passera ai democratici.

Poi c’è la questione, per ora affrontata in modo sibillino dal Capo dello Stato, dell'election day, che la sentenza del Tar per le elezioni nel Lazio il 3 e 4 febbraio, rende ancora più improbabile. Il Pd è per arrivare "al compimento dell'esperienza Monti” e dal Nazareno dicono che il segretario non entrerà nel merito delle decisioni che Monti vorrà prendere per il 2013, ma immagina, come detto più volte,  un ruolo per il Professor, parlando  esplicitamente della presidenza della Repubblica.

Ma c’è un siluro in corso, la richiesta di Nichi Vendola (che già presenta i primi conti per il sostegno alle primarie),  perché Bersani si faccia portavoce con Monti dei problemi che attraversano  il mondo della sanità e della scuola, affinché il governo dia “un segnale di salvezza”.

Ci sono poi i problemi della destra e, soprattutto, del Pdl, compresa la presunta volontà del Cavaliere di ritirarsi e di mollare il progetto di rieditare FI spacchettando il Pdl. Ieri Berlusconi ha dovuto tirare fuori tutta la sua grinta per difendersi dall’assalto di quelli che ormai, e senza mezzi termini, definisce “traditori” e “congiurati”. A pranzo, e per oltre tre ore, è andato ieri in scena a Palazzo Grazioli l’ennesimo scontro tra l’ala ormai definibile “trattativista e montiana”, composta da Alfano, Gasparri, La Russa e Quagliariello e l’ala berlusconiana ridottasi al trio Bondi, Verdini, Ghedini. In mezzo il solito Letta che da giorni tenta di trovare una sintesi sulla data delle elezioni con palazzo Chigi e Quirinale.

Alfano e molti altri puntano sul proseguimento della legislatura nel tentativo di salire sul treno del Monti-bis; ma il Cavaliere, invece, punta ad agganciare il vagone della Lega ed è per questo che potrebbe anche trattare sull’anticipo del voto nel Lazio, ma non sull’accorpamento delle politiche col voto in Lombardia dove Maroni ha stretto già un’intesa con Tremonti.

Intanto nella società civile si moltiplicano frustrazioni e musi lunghi e, soprattutto, emerge netta una sensazione d'impotenza diffusa,  al cospetto di una politica nella quale sembrano essere rimasti davvero in pochi a riporre ancora qualche speranza per il futuro.

Le nostre braccia di cittadini delusi, amareggiati e stanchi, non disegnano nell'aria invettive;  finiscono piuttosto per allargarsi in segno di resa.

E non fa bene leggere che, secondo il rapporto annuale dell’associazione Transparency International, l’Italia cresce in corruzione e diminuisce in trasparenza, scivolando al 76° posto a pari merito con la Bosnia Erzegovina, perdendo tre posizioni in un anno e  superata solo da Somalia, Afghanistan e Corea del Nord, bel al di sotto di Ghana, Lesotho, Saudi Arabia e Romania.
Nel suo rapporto l’associazione internazionale scrive  che da noi “i controlli continuano ad essere deboli e la crisi spinge pesci piccoli e grandi a cercare scappatoie, potere personale, profitto immediato. E a pagarne le spese non è solo l’etica e la morale pubblica, ma soprattutto l’economia; le aziende migliori vengono penalizzate dai furbi”.

L’anno scorso, il nostro paese era in 69sima posizione, con circa 50 punti su 100: già sotto la sufficienza, e ben lontana dagli altri “colleghi” europei come la Francia e la Germania con cui amiamo confrontarci. Quest’anno siamo messi peggio. 72esimo posto, appena 42 punti. Giusto per un confronto: siamo più corrotti del Ghana, a pari merito con la Tunisia e la Grecia, e in continua discesa. I casi Lusi, Fiorito, Tarantini, Maruccio sono recenti, e mostrano un trend preoccupante: non importa il grado alto o basso nella scala gerarchica delle istituzioni, ogni posizione di potere deve garantire una rendita. E, come nota Silvio Valenti su Diritto di Critica, l’effetto è devastante, soprattutto sull’economia, in quanto la crisi sta erodendo i margini di inefficienza e spreco che abbiamo potuto sopportare in passato.

Adesso non possiamo sprecare altre risorse nella corruzione perché distorce l’intero sistema.

Le aziende migliori, cioè quelle che presentano progetti competitivi validi per vincere le gare, subiscono la concorrenza sleale dei “furbetti”, che comprano l’appalto svolgendo poi un pessimo lavoro (alti costi, materiali scadenti, tempi lunghissimi). Non per niente il primo campo della corruzione è l’edilizia pubblica, in cui  i cittadini pagano 100 per veder realizzato 20 e il resto si perde nei passaggi di bustarelle.

Anche la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha messo una pietra tombale sul destino delle conversazioni telefoniche intercettate tra Napolitano e Mancino, e relativo conflitto di attribuzione, lascia spazio a molte perplessità, perché consente a Ingroia di calcare il ruolo di “pubblico accusatore” e al cittadino di aumentare la percezione che in Italia la giustizia non sia uguale per tutti. Di Pietro, Grillo e De Magistris sono con Ingroia e la buttano in politica  e fanno intendere, con tono populistico, che va rottamata tutta l’altra politica, a partire da Nopolitano autoproclamatosi Re Giorgio ed invece avrebbe potuto e dovuto adoperarsi perché tutte le alte cariche Istituzionali fossero elettive,  facendo così in modo che il pasticcio giustizialismo si risolvesse con licenziamento in tronco,  come avviene in una Società in cui chi sbaglia paga.

In mezzo a questo pantano appare ambigua anche la figura del magistrato palermitano, con grande sovraesposizione mediatica, ospite d’onore acclamato, il 1 dicembre scorso,  al Teatro Vittoria di Roma nella prima uscita pubblica di “Cambiare si può” e Alba. E presto al centro di altri appuntamenti, come quello del  12 dicembre al teatro Eliseo, con gli Arancioni di De Magistris.

Uno dei protagonisti di “Porcile” (1969) di Pasolini, dice: “Eccoci arrivati al momento in cui nessun tribunale potrà mai dire se in lei parla la ferocia o la pietà” e questo dubbio, per la più parte di noi italiani, continua immutato nel tempo. Perché aveva ed ha ragione il grande intellettuale: l’Italia è un paese di moralisti; ma il moralismo che altrove è bigotteria, qui è spesso solo la maschera sufficiente di un buon senso incomprensivo e smarrito. La società italiana nel suo complesso è estranea alla cultura occidentale di cui, però, pretende di far parte. Refrattaria alla tematica moderna, nasconde il suo imbarazzo dietro il moralismo, per non cambiare mai la sostanza delle cose.

Chi aveva compreso bene il senso della frase del nostro Benedetto Croce, nemico di ogni fantomatico “partito degli onesti”, quando diceva “vero politico onesto è il politico capace”, è stato Leonardo Sciascia che, da Rousseau, aveva preso una fede assoluta nell'uomo,  ma senza l’utopia di un visionario.

Oggi che, come mai prima, la politica è umiliata fino a vedere rivoltato questo principio nella esaltazione dell’assoluta incapacità, con l’aggravante di una millantata onestà, per il puro tornaconto personale, favorito dalla identificazione di nemici presunti disonesti, in un intreccio inestricabile di finzioni (di cui la tragicomica maschera è Di Pietro con i suoi familiari), Sciascia sarebbe disorientato e impotente. È morto più di vent’anni fa lo scrittore di Racalmuto, prima di Tangentopoli e del processo Andreotti, che lo avrebbero visto “implacabile osservatore”, come si annunciò nel profetico libro “A futura memoria”, in cui fra l’altro scriveva, commentando  incriminazioni arbitrarie e intercettazioni: “Io simpatizzo con il poliziotto, e cioè con l’investigatore. Che non è l’Inquisitore, ma uno che cerca la verità di fatto, al di là dei pregiudizi”.

Da Pasolini, da lui, da Silone, da Alvaro, da Busi, ma anche da autori stranieri (Saramago, Philip Roth, ecc.), dobbiamo imparare che l’uomo è l’uomo di Montaigne, con i suoi limiti e i suoi dubbi, ma che è già morto se perde la speranza, anche quella di una possibile e diffusa onestà.

Un'idea che non ha valore politico, se è vero che un intellettuale di destra come Pietrangelo Buttafuoco, si dice accompagnarsi al conterraneo Sciascia “per affinità elettive”, che conducono alla percezione chiara che non c’è impegno civile, non c’è moralità che non sia quella classificabile come “impegno” che vincoli ciascuno alle proprie convinzioni profonde ma anche ad incombenti   contrari, che vanno ascoltati ed esaminati con spirito libero, per poi giungere ad una sintesi finale.

La verità vera sulle stragi, non solo su quella di via D’Amelio ma anche su quelle di Firenze e Roma del 1993, difficilmente verrà fuori per intera. Così come non si poteva fare piena luce sull’omicidio Matteotti sotto il fascismo. Come spiegava Sciascia “lo Stato non può processare se stesso”. Può individuare bersagli di comodo buoni per lavarsi la coscienza, ma non può fare di più. Il conto, per la trattativa che costò la vita a Paolo Borsellino, lo pagherà probabilmente per tutti qualche figura di secondo ordine, andata in avanscoperta per precisi ordini superiori che rimarranno imperscrutabili in ossequio alla solita vomitevole interpretazione della ragion di Stato.
 
Gli altri alti farisei potranno così tranquillamente continuare a fare passerelle in occasione delle rituali commemorazioni in ricordo di quegli eroi che continueranno ad uccidere con le loro omissioni, menzogne e infami condotte.

Ciò che è importante però è che come singoli cittadini ne abbiamo almeno totale consapevolezza e possiamo valutarne contenuti e ragioni.

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