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Saturday, 21st March 2015 

Quattro giorni nella Garden Route

La Garden Route d’inverno è bellissima. Ci siamo andati lo scorso fine settimana. Siamo partiti il venerdì mattina verso le 10 e abbiamo fatto tutto il percorso, andata a ritorno, senza quasi mai superare i cento chilometri all’ora, che è la velocità massima consentita, sulle strade e autostrade del Sud Africa, ai pullman e pulmini che trasportano turisti. Così abbiamo fatto i turisti anche noi.

Il viaggio è stato poco piacevole per i primi cinquanta chilometri, o giù di lì, per via del traffico abbastanza intenso fra Cape Town e Somerset West. Poi, dal Sir Lowry’s Pass in poi, è stato una delizia. Dalla cima del passo, che una volta era intitolato all’Eiland, la grande antilope che aveva indicato la strada verso l’interno, oltre le montagne, ai primi esploratori, la vista della Falsa Baia toglie il fiato e anche questa volta è stato così, nonostante la giornata bigia.

Breve scalo tecnico al punto di ristoro dei Molteno a Grabouw, immemore delle sue origini brianzole, e poi via, verso la Garden Route, attraverso il distretto delle mele e le ondulate valli dell’Overberg, verdi e gialle come nessun altro posto al mondo nel cuore dell’inverno. Sono i campi di grano, di erba medica e di piante oleose, con i loro fiori giallissimi, a fare del paesaggio un mosaico tridimensionale, chiuso dalla linea ininterrotta dei monti a sinistra e con l’orizzonte aperto verso l’Oceano Indiano a destra. I campi coltivati si alternano ai pascoli e al “feinbos” e a qualche piantagione di ulivi, in un succedersi continuo di varie gradazioni di verde. Il profumo del “feinbos” ha in certi momenti un’intensità che stordisce. Qua e là greggi di pecore, di bovini e di struzzi, frammisti a stormi di rare gru celesti e comuni gru bianche e nere, a grandi famiglie di galline faraone e di altri grandi uccelli. Di tanto in tanto un uccello segretario che si sposta sussiegoso e impettito nel mezzo di un campo d’erba medica appena falciata e già ricresciuta. Nel fondovalle, per chilometri e chilometri, scorre quasi nascosto quello che i pionieri del Settecento e dell'Ottocento avevano battezzato "il fiume senza fine", perché dovevano passarlo e ripassarlo decine di volte con i loro carri trainati da buoi. A tutt'oggi ne conserva il nome e la memoria il villaggio di Riversonderend - fiume senza fine -, nel quale ci si può fermare per fare benzina e sgranchire le gambe.



Il panorama è sempre lo stesso, ma cambia continuamente: una valle, un fiume o un fiumiciattolo, un’altra valle, un piccolo centro abitato, un altro fiume, un’altra valle, il Breede River, così grande e profondo che per qualche chilometro è anche navigabile, ma traditore, come scoprirono a loro spese i navigatori che tentarono di utilizzarlo per i loro traffici fra Cape Town, George e il Border, quando sul Fish River finiva il Sud Africa dei coloni e cominciava quello dei Bantù.

Passiamo per Swellendam verso l’ora di pranzo e ci fermiamo per addentare un panino con la mortadella portato da casa, riflettendo sul nome di quella che fu la terza sede di un magistrato della Compagnia olandese delle Indie Orientali, nel 1700, nome che promette una diga (dam) e invece si compone di due parti di cognomi: quello del governatore Swellengrebel e di sua moglie Ten Damme. In questa zona siamo a un centinaio di chilometri dal Capo Agulhas, la punta più a Sud del continente africano, sconfitto nella battaglia per la notorietà dall’infinitamente più imponente, drammatico e romantico Capo di Buona Speranza. Il nome, si dice, viene dal fatto che qui le bussole segnano esattamente il Nord, senza alcuna deviazione magnetica.

Dopo Swellendam il viaggio prosegue nello stesso paesaggio, ma con una crescente presenza di piante che somigliano a grandi candelabri con lampadine rosse a forma di pannocchia. Sono le aloe ferox che caratterizzano l’Overberg fra Riversdale, Heidelberg, Albertinia e Mossel Bay. Qui si producono tanti estratti, cristalli, creme e unguenti che promettono miracoli per tutti i problemi dell’epidermide e del corpo umano nel suo insieme. Da qui la farmacopea mondiale trae molte sostanze miracolose che finiscono in prodotti dietetici e di bellezza, ma anche e soprattutto in medicine di sicura efficacia.

Poi, proprio dove comincia la Garden Route, ecco le ciminiere e le cisterne di Petroport, la raffineria che converte in petrolio il gas che, attraverso una condotta sottomarina, arriva a Mossel Bay dai giacimenti in alto mare.

Quella di Mossel Bay è una baia bellissima e ricca di storia. Qui approdò Bartolomeo Diaz nel suo primo viaggio alla ricerca di una rotta per le Indie, convinto di non aver ancora raggiunto il Capo di Buona Speranza, che invece aveva superato nel cuore di una tempesta. Qui avvenne il primo baratto fra i naviganti portoghesi e gli indigeni, che diedero buoi in cambio di campanelli di coccio e perline colorate, pentendosene poi amaramente. Qui un albero di “milkwood” fu il primo ufficio postale dove i naviganti diretti verso l’India lasciavano la posta che le navi di ritorno prelevavano per riportarla in Europa. Qui ancora oggi si può vedere quello stesso albero e si può sostare per qualche minuto nella sua ombra, in attesa di decidere se entrare o no nel museo per vedere una copia esatta della caravella di Diaz, ricostruita nel 1988 per il quinto centenario di quella sua impresa leggendaria e portata qui in tre mesi di navigazione dal Portogallo, dimezzando la durata del viaggio di allora, ma con il vantaggio di un motore.

A Mossel Bay, che vuol dire “Baia delle cozze”, comincia la Garden Route, che non è veramente un giardino fiorito, come ci si potrebbe aspettare, da vedere e apprezzare a volo d’uccello, ma piuttosto un succedersi continuo di baie e spiagge sconfinate, di boschi, foreste e fiumi, fra catene di montagne una a ridosso dell’altra. Un paradiso da centellinare, soffermandosi per qualche giorno nella zona, andando a scoprire una alla volta le spiagge nascoste, le dune coperte da fitta vegetazione, le valli fra le montagne, i laghi salati e i fiumi che scendono al mare e che hanno nomi come “Kaaiman River” e “Storm River”.

Qui la città più importante si chiama George come il re Giorgio III d’Inghilterra, ma la storia della regione è dominata dalla figura di George Rex, figlio illegittimo del re e di una donna quacchera, esiliato nelle colonie per sottrarsi a un destino più gramo. Qui i monti si chiamano Outeniqua come un’antica tribù che viveva da queste parti e al di là dei monti si arriva attraverso un passo costruito dai prigionieri di guerra italiani durante la seconda guerra mondiale. Qui vale la pena di fermarsi anche un paio di giorni per andare a vedere gli struzzi e le grotte di Cango nel Klein Karoo e per salire sugli Swartberg, i Monti Neri, dove nevica in questa stagione, per poi scendere a Prince Albert, nel Karoo, luogo della grande sete, e ritornare attraverso il passo di Meiringspoort, dove la strada corre fra montagne coloratissime che quasi si toccano in alto, sopra la testa dei viandanti.

Qui ci sono leggende di fantasmi, di streghe, di quadri nei quali di notte le persone ritratte cambiano posizione, di elefanti maestosi con zanne lunghissime e di altri elefanti amici di poeti, di alberi centenari e di setaioli italiani attratti nell’Ottocento dalla promessa di boschi di gelsi per i loro bachi, ma poi abbandonati a fare i boscaioli per sopravvivere. Qui, passando di corsa, si finisce per domandarsi perché mai si chiama Garden Route se i giardini non si vedono e non si scopre che quello cui allude il nome non è un giardino qualsiasi ma il paradiso terrestre.

Qui c’è anche la storia curiosa della valle chiamata inferno,  “Die Hell”, dove una famiglia di coloni visse per un secolo appartata dal mondo, fino a quando il governo dell’epoca non ne scoprì l’esistenza e mandò gli esattori delle tasse, che poi le diedero quel nome. L’unica strada per arrivarci è quasi sulla cima degli Swartberg, a 1800 metri di quota, dove percorrere pochi chilometri richiede un paio d’ore con un buon fuoristrada.

Ma torniamo al nostro viaggio del fine settimana, che ci ha portato nel tardo pomeriggio a Knysna, “luogo della grande acqua”, com’era chiamata dagli antichi abitanti di queste valli e montagne. Oggi è una ridente cittadina che cresce troppo in fretta, circondata da boschi e foreste nelle quali vivono gli ultimi elefanti di una popolazione di molte migliaia, sterminata per far posto all’agricoltura e a miniere che esistevano soltanto nella fantasia dei mercanti che così riuscirono ad attirare e imbrogliare alcune migliaia di avventurieri che si spostavano dall’America al Sud Africa negli anni ruggenti delle corse all’oro e ai diamanti. I mattoni e il cemento negli ultimi tempi hanno divorato anche ogni centimetro di Thesen Island, una striscia di terra che affiora appena dalle acque della laguna e che per più di un secolo aveva ospitato soltanto la segheria e i cantieri navali della famiglia di navigatori norvegesi dai quali aveva preso il nome.

A Knysna ci siamo fermati dal tardo pomeriggio del venerdì alla mattina del lunedì, allontanandoci soltanto per poche ore per esplorare il mercatino del sabato alle porte di Plettenberg Bay, una baia di una bellezza incredibile, oltre la quale la Garden Route acquisisce un fascino più ruvido, fatto di canyon profondi e corsi d’acqua tumultuosi, che nella stagione delle piogge si precipitano verso il mare con piene fulminee, trascinando massi e tronchi d’alberi. Il Bernacca di turno aveva promesso cattivo tempo per tutto il fine settimana, ma siamo stati fortunati e abbiamo avuto anche tante ore di sole. Vento e pioggia sono arrivati la sera della domenica e nella notte è piovuto un po’ anche nella stanza in cui abbiamo dormito, ma, tutto sommato, è stato un magnifico fine settimana.

Nel nostro fine settimana in paradiso non abbiamo scavalcato i monti Outeniqua attraverso il passo costruito da George al Klein Karoo dai prigionieri di guerra italiani e non abbiamo quindi incluso nel nostro itinerario gli allevamenti di struzzi - dove i meno pesanti possono anche concedersi una cavalcata a dorso di struzzo - e i "palazzi di piume" fatti costruire nell'Ottocento da allevatori resi ricchi da piume di struzzo che la moda femminile dell'epoca aveva reso più preziose dell'oro. Nè abbiamo visitato le Cango Caves con le loro meravigliose cattedrali, torri e cascate di stalattiti e stalagmiti, così immense che il loro scopritore, nel Settecento, calandosi con una corda nel buio più fitto, ritenne avessero la volta alta centinaia di metri. Scavate dalla forza delle acque nel fianco della montagna nel corso di milioni di anni, le grotte sono visitabili agevolmente per una distanza di circa 800 metri, dopo di che soltanto i più magri e avventurosi possono affrontare la "buca delle lettere" che consente di proseguirne l'esplorazione nelle profondità delle montagne che separano la valle dal Grande Karoo. Si va oltre attraverso lo Swartberg Pass, ma questa è un'emozione che dovremo concederci in un'altra occasione.

Sulla via del ritorno, il lunedì, siamo rimasti sulla N2 fino a Swellendam, ma qui abbiamo deviato verso la valle del Breede River, passando per Robertson e Worcester, perché nella notte era nevicato e le montagne da quella parte ostentavano civettuolamente una spruzzatina di bianco. Dopo  Worcester, dirigendoci verso Paarl e Cape Town, abbiamo preferito il Du Tooitskloof Pass all’omonimo tunnel, percorrendo la stupenda strada di montagna costruita dai prigionieri di guerra italiani. Dalle montagne con le cime bianche di neve, quando già all’orizzonte si stagliava la sagoma inconfondibile di Table Mountain, lontana ancora settanta chilometri, scendevano cascatelle d’acqua limpida.

Ciro Migliore

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